La Via che non c’è più è quella dove sono nato nell’immediato dopo guerra al quarto piano di un palazzo risparmiato per un pelo dai bombardamenti alleati. Via Paolo Antonio De Cavero, generale combattente, già via Silvio Pellico scrittore e poeta. La via del martirio di Merlino, Ricciotti e Coli per intenderci, il cuore pulsante del quartiere di Cornigliano negli anni più difficili dell’immediato dopo guerra. L’immigrazione dal sud e non solo e i primi scioperi all’acciaieria, i caroselli delle jeep della celere, i lacrimogeni e gli operai bastonati sotto casa mia e le donne che dai balconi inveivano contro i scelbini. Altri tempi. Partiamo dal basso in una immaginaria passeggiata armarcord in quegli anni. Sull’angolo con via Bertolotti “Gino u purca” un commestibili ben fornito con bene in vista in vetrina le vasche del baccalà. Di fronte, sempre ad angolo un’ostaia di cui non ricordo il nome. A salire, nella prima rampa, un artigiano falegname, la parrucchiera Benni e prima ancora una cartoleria. Ancora il calzolaio “Nunzio” e il parrucchiere da uomo Vella e, nella rampa, la sezione filocinese di “Servire il Popolo” e poi ancora il commestibili “Libero” con a guardia il suo longevo lupo Tex. A fianco a Libero lo storico Bar Carzino che confezionava ottimi gelati con coni anche a 10 lire. Di fronte la SOMS, dove sono venuto grande e dove ho iniziato ad avvicinarmi al mondo del volontariato contribuendo alla vita attiva dello storico sodalizio allora presieduto da Cartabianca. Erano i mitici anni 60. Chi si ricorda la SOMS non può non ricordarsi della biblioteca, noto ritrovo di intellettuali “sovversivi”, dove ho iniziato da ragazzo ad avvicinarmi alla politica. Proseguendo nel cammino da sud a nord l’Officina Boccalatte e la cantina Vini Badino di Roccagrimalda, la fabbrica di statuine di gesso del Bambin di Praga. L’Officina Dechaud, la falegnameria di Primo con l’irascibile Mario il muto; ancora un commestibili, una macelleria, l’idraulico Carletto al quale un po’ tutti abbiamo fatto da garzone e la moglie Gorizia; un negozio di frutta e verdura e la tipografia Mortara. Proprio sotto casa mia il mitico Cinema Teatro Esperia con i proprietari sigg.ri Morello, una copia di anziani obesi che deambulava con gran fatica, le “maschere” Nunzio e Pettinari e gli operatori Duilio e Giulio. La piazzetta, il carrugio, come lo chiamavamo, luogo dell’eccidio e dove trascorrevamo gran parte delle nostre giornate giocando a palla, a biglie e a grette oppure simulando la fucilazione dei partigiani prendendosi qualche meritato calcio nel culo da chi quei momenti li aveva veramente vissuti poco tempo prima. Poi l’abile fabbro Mancin e il triste luogo del suicidio del figlio che ci aveva scosso tutti. In fondo al carrugio, in quello che doveva essere il mercato mai nato di S. Michele; il garage/officina Zennoni (?) poi diventato “Piombo” e la falegnameria della Bruna. Sull’angolo il calzolaio Riziero un arzillo vecchietto toscano. Sopra al cinema la locale sezione del PCI e quasi di fronte quella del PSI. La Tipografia Mortara, il mobilificio Primo che rigorosamente a rate ha permesso a molti corniglianesi di arredarsi casa compreso la mia; un commestibili (Bruna poi Sambuceti) dove facevamo spesa sempre “segnando” per poi pagare a fine mese in un rapporto di reciproca fiducia oggi ormai inesistente; un negozio di pasta fresca (Serra) con la sua fida “Lancia” parcheggiata di fronte e il forno Danielli e la fabbrica di cassette postali Donnarumma. Dopo il calzolaio Riziero la latteria della Angela (?), dove facevano buona scorta di “pesciolini” e “tacchetti” di liquirizia ad 1 lira al pezzo; un fornitissimo formaggiaio, un piccolo bar, una drogheria e un altro parrucchiere da uomo, Pino Vella fratello dell’altro; subito dopo un laboratorio di riparazioni radio rigorosamente a valvole. Dopo il forno Danielli un negozio di dischi in vinile poi parrucchiera Eugenia, infine, sull’angolo, una ferramenta. Data la penuria delle case in quegli anni, i locali situati al piano terra non citati in questa narrazione, i cosiddetti “bassi”, alcuni fondi e cantine, erano abitati da famiglie numerose provenienti prevalentemente dal sud che, nonostante le condizioni indicibili, dignitosamente vivevano la loro vita nell’attesa di periodi migliori. Il carretto del ghiaccio, quello del carbone e quello del pescato completavano il quadro un po’ naif di una parte di un quartiere ancora inconsapevole di come sarebbero stati gli anni a venire. Questa era via De Cavero. Con un po’ di immaginazione e aiutati dalla nebbia, quella artificiale e tossica dell’acciaieria, si poteva immaginare di essere a Milano in Via Montenapoleone. C’era tutto, mancava solo la farmacia e i soldi naturalmente.
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